martedì 24 marzo 2015

Imprinting - ANAMNESIA E SOGNO





ANAMNESIA E SOGNO


Se l’architettura deve inserirsi armoniosamente nello spazio della natura la sua costruzione deve essere guidata dall’intelletto. La natura, per potersi adattare all’esistenza, deve venir contemplata dall’intelletto. Ne consegue che prodotti intellettuali dell’uomo appartengono necessariamente alla natura.”
Hans Van der Laan


Con queste parole Hans Van der Laan, che più di altri poteva permettersi di contemplare la natura come l’architettura essendo un monaco oltre che un architetto, discuteva della relazione tra lo spazio della natura e quello che estraiamo da essa, ovvero l’architettura.
Questo concetto mi è balzato come un grillo nella testa ricordando una vecchia lettura nel tentativo di cercare un habitat accogliente o meno, che fosse per me il luogo della memoria della mia psiche. In effetti, la natura che nel pensiero di Van der Laan è la genesi dell’artefatto, è simile a quello che sembra essere per me il luogo della memoria. Ecco perché.

Da ragazzino ricordo che fu indelebile da sempre nei miei ricordi una bellissima vacanza fatta con la mia famiglia da ancor più piccolo nella terra di alcuni miei zii che vivevano in Austria.
Ricordo che pregavo spesso mia madre di poter ripeter quel viaggio, perché mai come quella volta fui più suggestionato da un luogo così diverso da Casa. Molto di quel piccolo villaggio di montagna sperduto in chissà che valle alpina, mi era stampato nella mente come una fotografia ben dettagliata. Era un paesino che per quanto piccolo fosse poteva entrare benissimo in uno di quei souvenir di cristallo con la neve in forma di polvere plastica, una manciata di luci illuminava fiocamente quel metro di neve oltre le finestre di piccole case di legno, era un posticino fiabesco e silenzioso e io ne ero rimasto affascinato. Ricordavo anche alcuni piccoli e sfocati momenti di quella permanenza. Mi ero, per esempio, meravigliato delle colazioni infinite che ci aspettavano ogni mattina su una tavolata imbandita e straboccante di pietanze mai viste in un salotto accogliente di una piccola casetta di legno. Un camino di mattoni scuri ne riscaldava l’atmosfera e la colorava di un miele-arancio riflettendo la sua luce su un’infinità di quadri appesi alle pareti di tutta la stanza. 
Raccontavo spesso a mia madre questa fotografia che s’era impressa nella mia testa, ero un bambino ma ancora oggi potrei raccontare di quei giorni sulla neve. Effettivamente li raccontavo entusiasta anche da piccolo, ed effettivamente ogni volta che mia madre m’ascoltava sembrava sempre non ricordarsene perfettamente come facevo io. Pensavo ogni volta che forse per lei non fosse stato così speciale nonostante la ricordassi felice, molto più semplicemente magari non ne era rimasta impressionata come lo fui io. Beh, lei un giorno, forse stanca di vedermi ancora piccolo, disilluse il mio ricordo e mi disse che noi in realtà non c’eravamo mai andati in Austria, e si, avevamo dei parenti li su, ma non eravamo mai andati a trovarli. Non nascondo che inizialmente pensavo fosse un piccolo scherzo; il fatto che mia madre mi tendesse raramente in questi tranelli mi portava immediatamente alla verità dei fatti, e quel ricordo felice iniziava ad affievolirsi nei miei occhi come un pensiero distratto. Tornava così logico il motivo per cui non ricordavo affatto il viaggio verso le alpi, gli stessi nostri famosi parenti, nessun aneddoto frivolo che carica però strutturalmente un ricordo veramente vissuto. Nessuna anamnesia delle sensazioni tattil, della consistenza della neve che in teoria dovrebbe esser presente nella mente di un bambino che la tocca per la prima volta, nessun ricordo dei sapori delle pietanze che imbandivano le nostre immense colazioni, nessuna reale certezza che quelle memorie non fossero dei semplicissimi sogni.
Non fu mai un trauma essere catapultati di nuovo a Roma privi di una fantastica gita sulle alpi, mi meravigliavo sempre, a dire il vero, di come ero riuscito a tessere nella mente quel sogno innevato ed arrivai a dedurre per forza di cose che quell’esperienza era figlia di un sonno beato che m’ero fatto immaginandomi un luogo lontano, ben diverso da quello della mia terra natale. Il luogo della memoria per me è stato probabilmente una struttura onirica mai vissuta, un piccolo mondo che non avevo mai visto, un paesaggio che non avevo mai visto. Probabilmente riconosco molto più importante il processo creativo che stava dietro le immagini che avevo costruito, un processo che mi aveva immerso in un limbo illogico teso tra la verità e la finzione, qualcosa che mi sospendeva speranzoso tra le mie domande e i sorrisi ironici di mia madre. 
Vivere la periferia di una grande città mi aveva spinto a correre verso un luogo che non avesse la conformazione tipica della stessa, cercando di sottrarre allo spazio le barriere dei grandi palazzi popolari, di immaginarci piuttosto montagne imponenti, guardando boschi invece che strade ed ascoltando il silenzio invece che il frastuono del traffico. La grande struttura che avevo creato sottraeva lo spazio alla natura, come per liberarsi di un fardello pesante che invece gravava nella mia quotidianità, era un atto di modifica massivo in negativo che aveva semplificato e sostituito i luoghi che vivevo con quelli che avevo sognato. Questo tentativo fu per me importante, è sempre stato nella mia coscienza un esercizio che tenevo a cuore quasi come se l’avessi vissuto ed ottenuto dai miei occhi piuttosto che dalla mia mente. Ho sempre legato quella costruzione ad una capacità di trasformazione del vero, che spesso amavo dimostrare disegnando o semplicemente fantasticando, faticando invece con le parole e i concetti. Quel villaggio innevato è per me un ricordo caro della mia infanzia, il primo rapporto con la costruzione, uno dei primi che dissimulava il contatto con la realtà. Avevo estratto la mia architettura da un sogno, l’avevo poggiata sulle fondamenta di un ricordo per poi estrudere una struttura immaginaria e renderla viva nelle mie certezze. Questo è stato il mio primo edificio, il mio primo luogo.





L'anamnesi nella filosofia platonica è quel processo di reminiscenza che, stimolato dalla percezione degli oggetti sensibili, conduce l'uomo a riscoprire gradualmente nel proprio intelletto (attraverso la conoscenza intellettiva) quelle idee eterne che sono causa e origine del mondo fenomenico. La conoscenza sensibile, distinta dalla conoscenza intellettiva, può dunque offrire a quest'ultima lo spunto per avviare un tale processo.

La concezione dell'anamnesi, già presente nella visione orfico-pitagorica, è adottata da Platone per dimostrare nel Fedone la tesi dell'immortalità dell'anima e la formazione della conoscenza matematica e scientifica: noi non potremo mai avere una percezione empirica dei numeri, la cui conoscenza non dipende dai sensi, o delle forme geometriche, che nella loro perfezione non possiamo riscontrare nella realtà, ma potremo averla solo attraverso l'anamnesi che permette all'anima di scoprire in sé quelle verità che sono da sempre presenti in lei.

La reminiscenza o anamnesi è dunque un risveglio della memoria, il ridestarsi di un sapere già presente nella nostra anima, ma che era stato dimenticato al momento della nascita ed era perciò inconscio. Per Platone e i neoplatonici, conoscere significa dunque ricordare. La conoscenza non deriva dall'esperienza, sebbene questa svolga un ruolo importante e ineliminabile nel farsi "nunzio" dell'intelligibile: il ricordo avviene in forma immediata e intuitiva, per lampi improvvisi.

Platone descrive il concetto di anamnesi soprattutto nel Menone, nel Fedro ed in altri dialoghi. Nel Menone in particolare egli riferisce come Socrate riesca ad aiutare uno schiavo privo di cultura a comprendere il teorema di Pitagora. Platone vede in questo episodio la conferma della teoria dell'anamnesi: nonostante l'ignoranza in cui si trovava, lo schiavo può ritrovare da sé i passaggi logici di quel teorema perché evidentemente erano già presenti in forma latente nella sua mente, avendoli visti nel mondo Iperuranio delle idee prima di incarnarsi. È stato sufficiente quindi attivare il processo del ricordo tramite la maieutica socratica.








venerdì 20 marzo 2015

Cosa vedo?




Cosa vedo?




Cercare di descrivere un luogo della memoria è abbastanza semplice. 
Chiudi gli occhi e domandati: cosa vedo? 
Molto probabilmente non vedremo mai ciò che desideriamo mostrare veramente ad altre persone. Si cerca sempre in qualche modo di amplificare una veduta,  poeticizzare sempre più del dovuto quel che in realtà siamo e ciò di cui siamo fatti. Nel secondo in cui gli occhi si serrano, e vi domandate cosa vedete, passano istantaneamente milioni di fotografie, gesti, volti, odori e tra tutti questi scegli una voce, la tua, che si domanda ancora: cosa vuoi vedere? 
Non a tutti si riconosce la talentuosa facoltà di sapersi immergere nei ricordi migliori, nelle fantasie più condivisibili, sapendo tirar fuori dal cilindro un'estasi mistica di sogni frammentari e perfetti. Una domanda così potente contamina la coscienza, influenza una risposta sincera, devia il pensiero.
Cosa è un luogo della memoria allora? Bisognerebbe leggere la risposta prima di conoscere la domanda.
In attesa di compiere questo esercizio in maniera più ragionata ho pensato di condividere una ricerca che ho fatto per conto di una rivista per cui lavoro. Qui ho esplorato brevemente un piccolo mondo di me che amo, senza che nessuno, ne tantomeno io, mi chiedesse cosa vedessi. http://www.thewalkman.it/case-dell-infinito/

martedì 17 marzo 2015

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lunedì 9 marzo 2015

Il villaggio olimpico è frutto di una pianificazione urbana a grande scala, e sebbene si sia trasformato nei decenni e abbia aggiunti importanti tasselli nel mosaico generale dell'area, non concepisce un luogo di aggregazione ampio e referenziale come può essere quello di una grande piazza. In una città che fa del "quadratum" un luogo funzionale alla logistica dei percorsi, essenziale per il ritrovamento di un punto di riferimento, pare illogico non localizzarne alcuna. Monumentale o non, geometricamente simmetrica a grandi assi viari oppure irregolare e inglobata nei tessuti urbani, Roma fa delle agorà lo snodo tra l'intelaiatura dei percorsi o semplicemente il luogo che apre lo spazio nei sistemi abitativi più densificati. Questo è lo spunto per trovare la necessità di costruire un nuovo oggetto urbano:un elemento che si affianchi ottimamente alla logica della piazza come spesso riescono l'arco o l'obelisco. Questo non significa progettare un monumento, bensì ideare un edificio che risponda alle necessità di ritrovare un luogo simbolo della collettività. L'urban void 20 trova i connotati per affrontare questa questione, perché essa si attrezza una volta a settimana a questa funzione (mercato del venerdì) ma con le spoglie di un parcheggio desolato. Pensando, inoltre, alla grande permeabilità che il quartiere conserva attraverso l'elevazione delle strutture su pilotis, appare logico che la fruizione di uno spazio aperto di questo genere sia anche potenzialmente favorito dalla conformazione urbana.



martedì 3 marzo 2015

voce 04 + voce 20.